Mentre Nostro Signore
Gesù Cristo, carissimi,
predicava il
Vangelo del Regno e
guariva in Galilea le infermità più diverse,
la fama dei suoi miracoli si era
diffusa per tutta la Siria, e molte persone
accorrevano in folla al medico
celeste da tutta la Giudea.
Siccome la fede umana è molto
lenta a credere ciò che non vede e
a sperare quel che non conosce, era
necessario che coloro i quali dovevano
essere confermati con la divina
dottrina fossero stimolati con benefici
materiali e con prodigi visibili.
Così, sperimentando la potenza
benefica del Signore, non avrebbero
dubitato della sua dottrina apportatrice
di salvezza.
Il Signore, dunque, volle cambiare
le guarigioni esteriori, in rimedi interiori
e, dopo aver guarito i corpi,
risanare le anime. Perciò si allontanò
dalla folla che lo circondava, e si
portò in un luogo solitario di un vicino
monte. Là chiamò a sé gli Apostoli,
per istruirli con dottrine più elevate
dall’alto di quella mistica cattedra.
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San Leone Magno - Basilica di Notre-Dame, Montreal (Canada) |
Colui che aveva parlato a Mosè,
parlò anche agli Apostoli
Con la scelta di un tale posto e
di un tale ministero, Nostro Signore
volle mostrare che agiva con la stessa
autorità con la quale, in altri tempi,
aveva parlato a Mosè. Ma là aveva
parlato con una giustizia tremenda,
qui invece con la sua divina clemenza,
perché si adempisse quanto
era stato promesso per bocca del
profeta Geremia: “Questa sarà l’alleanza
che io concluderò con la casa
di Israele dopo quei giorni, dice il
Signore: Porrò la mia legge nel loro
animo, la scriverò sul loro cuore.”
(Ger 31, 31.33; Eb 8, 8.10).
Colui dunque che aveva parlato a
Mosè, parlò anche agli apostoli e la
mano veloce del Verbo, che scriveva
nei cuori dei discepoli, promulgava i
decreti del Nuovo Testamento. Non
era circondato, come allora, da dense
nubi, né da tuoni e bagliori terribili,
che tenevano lontano dal monte
il popolo. Ora si intratteneva con
i presenti in un dialogo tranquillo e
affabile. Fece questo perché la soavità
della grazia rimuovesse la severità
della legge e lo spirito di adozione
eliminasse il terrore della schiavitù.
A quali poveri Si riferisce Gesù?
Quale sia l’insegnamento di Cristo
lo manifestano le sue sacre parole.
Coloro che desiderano pervenire
alla beatitudine eterna, riconosceranno
dai detti del Maestro quali siano
i gradini da percorrere per salire
alla suprema felicità: “Beati i poveri
in spirito, perché di essi è il regno
dei Cieli” (Mt 5, 3).
Potrebbe forse ritenersi incerto
quali siano i poveri, ai quali si riferisce
la Verità se, dicendo poveri, non
avesse aggiunto null’altro per far capire
il genere di poveri di cui parla. Si
sarebbe allora potuto pensare essere
sufficiente per il conseguimento del
regno dei cieli quella indigenza, che
molti patiscono con opprimente e
dura ineluttabilità. Ma quando dice:
“Beati i poveri in spirito”, Nostro Signore
mostra che il Regno dei Cieli
va assegnato piuttosto a quanti denotano
umiltà interiore, anziché la semplice
carenza di ricchezze.
Senza dubbio i poveri possono ottenere
più facilmente i beni eterni
che i ricchi, poiché quelli non hanno
nulla cui attaccarsi, mentre questi
con frequenza ripongono le loro
speranze nei beni perituri. Tuttavia,
in molti ricchi si trova quella disposizione
a usare della propria abbondanza
non per orgogliosa ostentazione,
ma per opere di bontà, e così
considerano grande guadagno ciò
che elargiscono a sollievo delle miserie
e delle sofferenze altrui.
Questa comunanza di virtuosi propositi
si può riscontrare fra gli uomini
di tutte le categorie. Molti effettivamente
possono essere uguali nelle
disposizioni interiori anche se rimangono differenti nella condizione economica.
Ma non importa quanto differiscano
nel possesso di sostanze terrene,
quando si trovano accomunati
nei valori spirituali. Beata quella
povertà che non cade nel laccio teso
dall’amore dei beni temporali, né brama
di aumentare le sostanze del mondo,
ma desidera ardentemente l’arricchimento
dei tesori celesti. […]
Una tristezza che non proviene
dalle afflizioni mondane
Dopo queste parole sulla felicissima
povertà, il Signore prosegue dicendo:
“Beati gli afflitti, perché saranno
consolati” (Mt 5, 4). Carissimi, l’afflizione
di quelli che piangono, alla
quale Si riferisce il Salvatore e viene
promessa la consolazione eterna, non
ha nulla in comune con le tribolazioni
di questo mondo. Né queste rendono
beati quelli che le patiscono.
Diversa è la natura dei gemiti dei
santi, come pure diversa è la causa
delle lacrime che meritano di essere
chiamate beate. Il dolore propriamente
religioso è quello che piange
o il peccato proprio o quello degli
altri. Né si duole perché questo male
è colpito dalla giustizia divina, ma,
se si attrista, lo fa per quanto viene
commesso dalla iniquità umana. È il
caso di piangere più colui che compie
le opere del male, che chi ne è
la vittima, perché la malizia fa sprofondare
l’iniquo nell’abisso della
pena, la sopportazione, invece, conduce
il giusto alla gloria.
Completa armonia tra la carne
e la volontà dell’ anima
Prosegue il Signore dicendo: “Beati
i miti, perché erediteranno la terra”
(Mt 5, 5). Ai miti e mansueti,
agli umili e modesti, a quanti sono
disposti a subire l’ingiustizia, viene
promesso il possesso della terra.
Non si tratta di un’eredità piccola
o spregevole, quasi fosse separata dalla
patria celeste, poiché dobbiamo intendere
che questi, e non altri, entreranno
nel Regno dei Cieli. Perciò la
terra promessa ai miti, e che toccherà
in eredità ai mansueti, rappresenta
il loro corpo che, grazie ai meriti della
loro umiltà, nella beata risurrezione
verrà trasformato e rivestito di gloria
immortale. Il loro corpo non sarà più
assolutamente in contrasto con lo spirito,
ma sarà perfettamente conforme
e unito al volere dell’anima.
Allora infatti l’uomo esteriore avrà
il possesso pacifico e immacolato
dell’uomo interiore. La mente, vedendo
Dio, non incontrerà più gli ostacoli
della fiacchezza umana, né avrà bisogno
di dire: “un corpo corruttibile appesantisce
l’anima e la tenda d’argilla
grava la mente dai molti pensieri”
(Sp 9, 15), poiché la terra non aggredirà
chi la abita e non si ribellerà contro
le leggi del suo governatore.
Così, il mansueto la possederà in
una pace perpetua, e non sarà diminuito
in nulla ciò che gli appartiene per diritto,
perché “è necessario infatti che
questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità
e questo corpo mortale si
vesta di immortalità” (I Cor 15, 53). Il
pericolo si convertirà in premio, e ciò
che fu di onere gravoso, sarà di onore.
Felice l’uomo che desidera il
buon alimento della giustizia
A seguire, il Signore continua:
“Beati quelli che hanno fame e sete
della giustizia, perché saranno saziati”
(Mt 5, 6). Non nel corpo, non
nella terra, ma nel desiderio di essere
saziati dal buon alimento della
giustizia, introdotti nel segreto di
tutti i beni occulti e brama di riempirsi
dello stesso Dio. Beata l’anima
che aspira a questo cibo e arde di
desiderio per questa bevanda. Non
lo ambirebbe certo se non ne avesse
già per nulla assaporato la dolcezza.
Udendo la voce profetica: “Gustate
e vedete quanto è buono il Signore”
(Sal 34, 9), ha ricevuto una
parcella della dolcezza celeste. Si
è sentita bruciata dell’amore della
castissima voluttà, tanto che, disprezzando
tutte le cose temporali,
si è accesa interamente del desiderio
di mangiare e bere la giustizia.
Ha imparato la verità di quel primo
comandamento che dice: “Amerai il
Signore tuo Dio con tutto il cuore,
con tutta l’anima e con tutte le forze”
(Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12,30; Lc
10,27). Infatti amare Dio non è altro
che amare la giustizia. (Rivista Araldi del Vangelo, Ottobre2017, n. 173, p. 6-7)
San Leone Magno.
Passi del Sermone XCV,
sulle Beatitudini: PL 54, 461-464